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Main Partner

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La condizione umana

Dopo il successo nel 2022 di Collective Individuals, a cura di Leonardo Bigazzi, Artissima, insieme a Intesa Sanpaolo, Main Partner della fiera, ha presentato per il secondo anno un progetto di film e video d’artista ideato e prodotto in dialogo con le Gallerie d’Italia – Torino, che sono state la sede ospitante.

La sala immersiva del museo ha ospitato la condizione umana, mostra a cura di Jacopo Crivelli Visconti, critico d’arte e curatore indipendente. La rassegna di opere video, molte delle quali esposte per la prima volta in Italia, ha visto artisti rappresentati dalle gallerie partecipanti ad Artissima.

Gli artisti e le gallerie presentati sono stati: Adrián Balseca (galleria MADRAGOA, Lisbona), Seba Calfuqueo (galleria MARILIA RAZUK, Sao Paulo e galleria LAVERONICA, Modica), Julian Charrière (galleria Sies + Höke, Dusseldorf), Tamara Henderson (galleria RODEO, Londra, Piraeus), Joan Jonas (galleria Raffaella Cortese, Milano), Ali Kazma (galleria Francesca Minini, Milano), Elena Mazzi (galleria Ex Elettrofonica, Roma), Uriel Orlow (galleria mor charpentier Parigi, Bogotá e galleria LAVERONICA, Modica), Shimabuku (galleria ZERO…, Milano).

OPERE

Adrián Balseca

The Skin of Labour, 2016

Nel suo lavoro, Adrián Balseca (Quito, Ecuador, 1989) affronta questioni specifiche del contesto ecuadoriano e della storia recente del paese, spesso analoghe a quelle di altri paesi del continente latino-americano e di tutto il Sud Globale. In particolare, negli ultimi anni l’artista si è soffermato con grande attenzione sulle dinamiche estrattive, sia del suolo che della foresta e di altri ecosistemi, e sul loro devastante impatto ecologico.
The Skin of Labour è stato filmato in una piantagione di gomma nell’Amazzonia ecuadoriana, scenario di uno sfruttamento spietato tanto della natura quanto della stessa mano d’opera, frequentemente mantenuta in condizioni di schiavitù durante decenni. Ad oggi, le politiche di estrazione sono passate dalla gomma al petrolio, dall'estrazione vegetale manuale all'estrazione fossile mediante macchine. Il lavoro sottolinea il divario tra l'Amazzonia idealizzata come natura idilliaca e l’impulso umano a conquistare e sfruttare questo territorio.

Julian Charrière

Ever Since We Crawled Out, 2018

Al crocevia tra performance, scultura e fotografia, i lavori di Julian Charrière (Morges, Svizzera, 1987) sono spesso il risultato di lunghe ricerche sul campo in contesti estremi e di transizione, come vulcani, ghiacciai e siti radioattivi. Collaborando con scienziati, ingegneri, storici dell'arte o filosofi l’artista indaga e smantella le tradizioni culturali che frequentemente strutturano il modo in cui il cosiddetto mondo naturale è percepito e rappresentato.
L’opera Ever Since We Crawled Out mette in evidenza la fragilità e rende quasi tangibile la finitezza delle risorse del pianeta. Utilizzando filmati in bianco e nero provenienti da archivi cinematografici, l'opera mostra, in una ripetizione monotona e angosciante, senza soluzione di continuità, il taglio di innumerevoli alberi. Il rumore del legno che si rompe e poi si schianta al suolo è un grido di dolore che invita a riflettere sulla responsabilità condivisa da ognuno di noi nel processo di devastazione della natura

Elena Mazzi

Pirolisi solare, 2017

Lo sguardo di Elena Mazzi (Reggio Emilia, Italia, 1984) si sofferma spesso sul modo in cui l’ambiente è modificato dalla presenza e dall’attività umana. Con un approccio quasi antropologico, l’artista indaga e documenta un’identità sia personale che collettiva, relativa a un territorio specifico e che dà luogo a diverse forme di scambio e trasformazione.
Pirolisi solare, in particolare, prende spunto dalla ricerca scientifica sulle fonti di energia rinnovabile. Partendo da un’installazione di specchi protagonista di un lavoro precedente (Reflecting Venice, 2012-2014), il lavoro verte sulla grana materica della pellicola che fissa la luce e colpisce un cumulo di paglia, trasformandola in biomassa, risorsa energetica del futuro. Una ricerca scientifica attuale, che cita gli esperimenti di Archimede, al fine di lavorare con fonti energetiche alla portata di tutti.

Joan Jonas

Stream or River Flight or Pattern (detail), 2016-17

Sin dagli anni ‘60, il lavoro di Joan Jonas (New York, Stati Uniti, 1936) spazia dalla performance al video al disegno, con un approccio spesso ritualistico e quasi mistico, in cui l’artista interagisce con animali e piante. Nei video, in cui il tempo è frequentemente dilatato, compresso o moltiplicato attraverso immagini che si sovrappongono, l’artista non fa uso di tecnologie particolarmente sofisticate, permettendo anzi che il pubblico percepisca il suo gesto e la sua presenza. Non si tratta, tuttavia, di un lavoro autobiografico, ma della creazione di un ambito quasi onirico, in cui i personaggi passano senza sforzo da un lato all'altro della realtà.
Stream or River Flight or Pattern (detail) è parte di un’installazione dallo stesso titolo, composta oltre che da questo da altri due video, da una serie di aquiloni e da grandi disegni di uccelli. Il volo e in particolare gli uccelli sono tra i soggetti principali dell’installazione, il cui materiale video è stato girato nel 2016 tra Venezia, Singapore e il Vietnam.

Seba Calfuqueo

TRAY TRAY KO, 2022

Seba Calfuqueo (Santiago, Cile, 1991) affronta nel suo lavoro, attraverso performance, video, sculture e disegni, questioni di genere e razza, dibattiti culturali locali e globali ed urgenti problemi sociali ed ecologici. Come la stessa artista ha affermato, l'insieme della sua opera costituisce, personalmente e simbolicamente per la comunità indigena Mapuche a cui appartiene, un modo per “appropriarsi di una storia e di un luogo che storicamente ci sono stati negati”.
La vera protagonista di TRAY TRAY KO è trayenko, la cascata verso cui l'artista si dirige nella sua azione, un luogo sacro dove si svolgono molti dei riti del popolo Mapuche, tanto per la presenza dell'acqua quanto per la ricchezza di lawen, piante medicinali che crescono sulle sponde delle vasche che si creano spontaneamente sotto al trayenko. Vestita con un lungo mantello azzurro, che si snoda dietro di lei come un secondo fiume, l’artista riafferma la fusione inestricabile tra il suo corpo, e per estensione quello collettivo della comunità Mapuche, e il territorio.

Tamara Henderson

Accent Grave on Ananas, 2013

L’universo poetico di Tamara Henderson (New Brunswick, Canada, 1982) è inconfondibile. Attraverso film, sculture, installazioni e dipinti, l’artista ci trasporta in un contesto onirico, surrealista e al tempo stesso coerente, come possono essere a volte i sogni. Il suo lavoro può essere ricollegato, in questo senso, tanto alle avanguardie storiche dell’inizio del 20° secolo, quanto alle sperimentazioni lisergiche e performative degli anni ’60, o ancora alle pratiche sciamaniche di popoli originari delle Americhe e di altre parti del mondo.
La figura umana è assente dalla maggior parte dei lavori di Henderson, che ció nonostante offre la possibilità di riconnettersi con il corpo, o meglio, con l’idea stessa di ciò che un corpo è, deve o può essere. Oggetti inanimati o persino un frutto, come in Accent Grave on Ananas, sostituiscono la figura umana e si trasformano in protagonisti di avventure oniriche, surrealiste o riflessive.

Ali Kazma

Safe, 2015

Ali Kazma (Istanbul, Turchia, 1971), esplora la relazione tra aspetti visibili e invisibili della realtà, mettendo in discussione l'organizzazione sociale e il valore dell'attività umana. Registrando attività specifiche in una vasta gamma di settori (economico, industriale, scientifico, medico, sociale, artistico), la sua ricerca si muove indagando spazi di rilevanza sociale, luoghi di produzione inerenti all’industria e all’artigianato.
Safe è stato girato nel Global Seed Vault, situato nelle isole Svalbard, tra la Norvegia e il Polo Nord, il più grande tra oltre 1.000 depositi che, in varie parti del mondo, conservano semi di piante da usare in caso di catastrofe. L’opera evidenzia l'importanza di preservare la biodiversità agricola e la necessità sempre più urgente di salvare piante (e acqua pulita). Ne emerge un ritratto desolato della società contemporanea, condannata a prendere delle misure per prevenire gli effetti di catastrofi che lei stessa si ostina a creare.

Shimabuku

Sculptures for Octopuses: Exploring for Their Favorite Colors - Aquarium in Kobe, 2019

La ricerca artistica di Shimabuku, (Kobe, Giappone, 1969), iniziata negli anni '90, si sofferma spesso su aspetti apparentemente banali o ingenui della vita e della cultura giapponese o di persone che l’artista incontra nei suoi viaggi, tanto in Giappone quanto all'estero. I suoi lavori, indipendentemente dai media utilizzati di volta in volta, sono sempre ricchi di poesia, leggerezza e ironia inimitabili.
Sculptures for Octopuses è uno di vari lavori in cui Shimabuku volge il suo sguardo al mare e alle creature che lo abitano, in questo caso creando una serie di sculture per polipi. Le sculture diventano uno strumento per cercare di capire come pensa un polipo, quali sculture gli piacciono di più, quali meno, quali sono i suoi colori preferiti. Come scrive l’artista, “sul vasto fondale dell'oceano, può un piccolo pezzo di vetro connettere un uomo e un polipo?"

Uriel Orlow

What Plants Were Called Before They Had a Name, 2015-2018

La ricerca di Uriel Orlow (Zurigo, Svizzera, 1973) si distingue per una multidisciplinarietà che abbraccia video, fotografia, disegno e suono. Il cuore di molte sue opere risiede nell’intima analisi di luoghi specifici e micro-storie, fondendo linguaggi e modalità narrative differenti.
L’opera sonora What Plants Were Called Before They Had a Name è una sorta di erbario orale. Da speakers differenti vengono pronunciati nomi di piante in lingue indigene sudafricane come Khoekhoe, Norhern Sotho, Sesotho, siSwati, Setswana, Xithsonga, Xhosa e isiZulu. L’opera è nata a seguito della visita dell’artista al Kirstenbosch Botanical Garden di Città del Capo, nel quale la catalogazione delle piante usa esclusivamente nomi latini e traduzioni in inglese, ignorando le denominazioni e le conoscenze tradizionali delle comunità indigene. What Plants Were Called Before They Had a Name riconosce, restituisce e celebra questa conoscenza repressa, permettendo alle piante di "cantare" in onore del loro passato e di riportarlo in vita, dando voce a un capitolo dimenticato della storia.
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