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Issue n. 25 | Hans Ulrich Obrist intervistato da Filipa Ramos

30 Ottobre 2018 Artissima Stories

Filipa Ramos: Come immagini si evolverà la figura del curatore? Come sarà il curatore del futuro?

Hans Ulrich Obrist: La curatela segue sempre l’arte. Per dire quale sarà il futuro del curatore, bisognerebbe conoscere il futuro dell’arte. Quello che possiamo dire, guardando all’arte al presente estremo, è che al momento esiste un bisogno e un desiderio di nuovi esperimenti nell’arte e nella tecnologia. Pensa, ad esempio, a Pierre Huyghe, che è attualmente in mostra alla Serpentine Gallery. Per la mostra, Pierre ha lavorato con un apparecchio telepatico, in un laboratorio a Kyoto, e nei suoi nuovi lavori si può in sostanza osservare l’intelligenza artificiale in azione, nel suo tracciare l’attività neurologica. Allo stesso tempo, curare significa sempre creare struttura, e in questo senso curare deve far convergere arte, letteratura, e musica, e sempre più anche arte e scienza: questo sarà uno dei temi per il futuro. Un’altra cosa sulla quale il curatore del futuro dovrà focalizzarsi sono i progetti di lunga durata. E anche una nuova lentezza, e sostenibilità. La globalizzazione ha accelerato la perdita di diversità di specie e di linguaggi. Credo che sia essenziale che la curatela del futuro sia parte della resistenza all’estinzione.

FR: E cosa pensi della fiera del futuro, e in particolare, di Artissima? Come credi sarà la fiera del futuro?

HUO: Le fiere per me sono sempre state uno strumento di ricerca importante, ad esempio per la scoperta di nuovi artisti e anche, cosa molto significativa, per la riscoperta di maestri e pionieri. Diciotto anni fa, ad Art Basel a Miami, ebbi modo di riscoprire i lavori cinetici di Jesús Rafael Soto; in seguito andai a trovarlo, lo intervistai e feci dei progetti con lui. E l’anno scorso, Jacqueline de Jong, che era stata parte della generazione dei Situazionisti, inaspettatamente ha uno stand monografico ad Artissima ed è a Torino! La intervistai e iniziammo a collaborare. E sempre Artissima è stata la prima occasione in cui ho avuto modo di vedere il lavoro di Rachel Rose, dopo averla incontrata una volta quando era studente.

Penso di aver saltato forse solo un’edizione di Artissima negli ultimi dieci anni, perchè una serie di direttori davvero degni di nota l’hanno resa molto curatoriale, in un certo senso. Ma pensando al futuro, una delle questioni dev’essere se una fiera possa essere in misura maggiore un luogo per opere che non siano necessariamente oggetti. Dal XIX secolo agli anni ’60, l’arte è stata per lo più una storia fatta di oggetti, ma negli anni ’60 iniziamo a confrontarci con non-oggetti, anti-oggetti, e ambienti. Al momento assistiamo naturalmente a un grande ritorno dell’arte pubblica; il 2018 è stato davvero il suo momento. Pensa ad esempio a Dazzle Boat, la barca di Tauba Auerbach a New York, o al nostro progetto con Christo, The London Mastaba, nel lago della Serpentine. E quindi, come può una fiera riflettere questo desiderio di poter vedere arte pubblica e anche arte performativa?

FR: Tu hai un assistente notturno e hai bisogno di pochissimo sonno. Come sarà il futuro del sonno per te?

HUO: Ho sempre pensato che non dormire fosse meglio, perché c’è così tanto da fare in una vita. Il punto di svolta nel mio modo di vedere il sonno fu quando, a Monaco, dov’ero per un talk alla DLD Conference, incontrai Till Roenneberg, uno scienziato e scrittore tedesco. Mi disse che il sonno di ogni essere umano ha un suo ritmo interno, che varia moltissimo, e che è in realtà molto distruttivo cercare di alterarlo. Quindi di solito vado a letto a mezzanotte e mi alzo prestissimo, alle cinque o sei del mattino: è un ritmo più sostenibile per me, per essere più produttivo. Lavoro con un producer notturno: non sarebbe capace di lavorare di giorno, e così ha adattato il suo lavoro al suo ritmo del sonno.

FR: Leggere compulsivamente: ritieni che la lettura compulsiva sia una pratica intellettuale? Ci sono libri e testi ai quali ritorni con regolarità?

HUO: La questione, quando si parla di leggere, è come crearsi del tempo libero. Liberare del tempo è, credo, quello che dobbiamo fare anche per leggere. Amo leggere l’intera opera di uno scrittore, a partire da quando ero bambino, quando lessi le opere complete di Robert Walser, e ciò mi portò a inventare e fondare il mio primo museo, il Robert Walser museum, nelle prealpi svizzere. E in seguito, diventai amico di Édouard Glissant, e questo è diventato una specie di rito: ogni mattina leggo qualcosa di suo per qualche minuto. Glissant ci invita a vedere il mondo come un arcipelago, come un insieme di isole connesse tra loro, che funzionano solo se insieme, dove la connessione tra le parti è forse la cosa più importante. Il “pensiero arcipelago” di Glissant ha plasmato la mostra Mondialité, che curai con Asad Raza a Villa Empain, a Bruxelles. E ora, insieme a Gabriela Rangel, abbiano organizzato Trembling Thinking, una mostra all’Americas Society a New York, per la quale abbiamo invitato degli artisti a rispondere all’eredità intellettuale di Glissant e di Lydia Cabrera, che è stata una straordinaria artista, scrittrice, e antropologa cubana. Ho anche letto tutta l’opera letteraria di Etel Adnan, e quella lettura ossessiva e la mia amicizia con Etel hanno dato molti frutti, tra cui il mio Instagram, per il quale invito gli artisti a creare contenuti scritti. E con questo torniamo all’idea della lettura come contenitore di strumenti.  Ma la più recente e profonda ossessione è stata leggere Friederike Mayröcker, l’incredibile poetessa e scrittrice austriaca, che ora ha più di novant’anni. Mayröcker ha notoriamente inventato molti neologismi, e credo che sia la più grande scrittrice di lingua tedesca dei nostri tempi.

FR: E come leggi? Hai un metodo? Ti disconnetti?

HUO: Leggere significa anche scollegarsi, perché oggi siamo connessi tutto il giorno, e rallenta tutto, in un certo senso. Dal momento che navighiamo molto tra tutte queste piattaforme di condivisione, in una sorta di modalità costantemente reattiva, leggere richiede di disconnettersi, e ti catapulta nel tuo pensiero.

FR: Quando dico Torino, cos’è la prima cosa che ti viene in mente?

HUO: Torino è una città di artisti! È incredibile come questa città abbia cosi tanti artisti straordinari. Da teenager, ho viaggiato molto con i treni notturni. Non potevo permettermi l’aereo, e comunque, è un modo di viaggiare più sostenibile al quale dovremmo tutti cercare di ritornare. Arrivai a Torino con un treno notturno da Parigi, e una delle mie prive visite fu con Mario e Marisa Merz. Non dimenticherò mai che Mario mi portò in giro in macchina e mi mostrò la meravigliosa Mole Antonelliana, e quando andammo nel suo studio fece un disegno della torre insieme ai numeri della successione di Fibonacci. E oggi c’è un enorme Fibonacci di Merz sulla Mole! E così, a causa di Mario, Torino per me è anche questa torre. Infine, il Castello di Rivoli è sempre stato molto importante per me; ho sempre fatto un piccolo pellegrinaggio a Rivoli. E questa idea di pellegrinaggio, del fare uno sforzo, in qualche modo amplifica la reazione che si ha una volta di fronte all’arte, e forse questo non è sbagliato anche pensando a Torino come città.

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