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Percorso 04
Una riflessione sull’eterno ritorno dell’immagine e sul suo potere, attraverso la pratica di artisti che riprendono opere e icone dal passato
Tappa 01
Corridoio Arancione 2 e Rosso 1
Scoprila al minuto 03:42
Tappa 02
Back to the Future BTTF 10
Scoprila al minuto 06:55
Tappa 03
Present Future PF 1
Scoprila al minuto 11:02
Tappa 04
Disegni DS 2
Scoprila al minuto 14:53
Tappa 05
Corridoio Grigio 10
Scoprila al minuto 18:22
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Corridoio Arancione 2 e Rosso 1
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Tappa 02
Back to the Future BTTF 10
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Tappa 03
Present Future PF 1
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Disegni DS 2
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Tappa 05
Corridoio Grigio 10
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Buongiorno! Ti diamo il benvenuto ad Artissima 2022. Questo è il progetto AudioGuide e stai ascoltando il percorso numero 04 intitolato Pictures never die e dedicato ad esplorare la pratica di artisti che lavorano sul tema dell’immagine. Da sempre l’essere umano si esprime attraverso le immagini e ne viene influenzato in ogni ambito della sua vita, dai riti alla quotidianità. La natura peculiare delle immagini è stata quindi fin dall’antichità oggetto di numerose pratiche, ma anche di riflessioni: Platone ad esempio vedeva l’immagine come imitazione, criticandone quindi la distanza dal vero e dal mondo delle idee, mentre Aristotele sosteneva che per l’uomo l’immagine fosse il mezzo attraverso il quale giungere alla comprensione di concetti astratti. Senza dubbio in occidente il canale principale di produzione e diffusione di immagini è stato per moltissimo tempo ciò che identifichiamo come arte. Attraverso l’immagine le classi dominanti e le strutture religiose hanno educato, suggestionato e sottomesso la popolazione promuovendo la propria idea del mondo. L’arte è stata però anche documento, testimonianza e veicolo di messaggi, contenuti culturali e libere espressioni. L’immagine, che non a caso è strumento privilegiato della propaganda e della pubblicità, ha il potere di agire su di noi in modo meno mediato della lingua scritta e parlata, finendo per produrre forti condizionamenti, ma anche altrettanto forti reazioni. Ancora nell’epoca contemporanea le immagini sono continuamente oggetto di sfruttamento, di dibattiti e di attacchi, si pensi all’uso dei social media, alla censura, all’abbattimento dei monumenti, al danneggiamento della Pietà e della Gioconda o alle recentissime manifestazioni di attivisti che hanno riguardato le opere di Constable, Monet e Van Gogh. Nel suo saggio fondamentale intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, scritto nel 1935, Benjamin sosteneva che la riproduzione dell’immagine artistica privasse l’opera della sua autenticità e quindi della sua originaria potenza, che l’autore chiamava “aura”. In epoca più recente gli studi di estetica, semiotica e antropologia tendono invece a concentrarsi su come qualunque immagine sia un dispositivo dotato di vitalità e da questa sia sempre derivato ciò che Freedberg chiamava “Il potere delle immagini”, soggetto di un suo illuminante trattato pubblicato nel 1989. Pur se possiamo considerare la maggior parte della produzione artistica come produzione di immagini, l’arte contemporanea, prima con l’astrattismo e poi con l’arte concettuale e l’installazione, sembra essersi spesso concentrata su un allontanamento dal mondo dell’immagine. Tuttavia il figurativo non ha mai davvero perso forza e dagli anni ’80, con i lavori di Richard Prince e Sherry Levine, l’arte anche ha aperto un nuovo tipo di rapporto con l’immagine basato sull’appropriazione, una modalità che, tramite la ripresa di immagini prodotte da altri, mette in crisi il concetto di autenticità. Il nostro percorso di oggi ci porterà a indagare quanto l’immagine, nel suo essere potente e replicabile, sia ancora al centro di numerose ricerche artistiche molto differenti fra loro. Io sono Sergio Manca e ti accompagnerò in questo viaggio. Siamo pronti per partire. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Prometeo che si trova al numero 1 nel corridoio rosso, dove cominceremo il nostro tour. Schiaccia play una volta che sarai lì.
Iniziamo il nostro percorso dalla Prometeo Gallery di Ida Pisani. Qui incontriamo l’opera di un artista marchigiano nato nel 1983, che ha già alle spalle più di un decennio d’importante carriera artistica, sempre sostenuta dalla galleria. L’artista con cui ci confrontiamo è Fabrizio Cotognini, il quale ha fondato la sua ricerca sul rapporto con le immagini del passato, applicando ad esse uno studio che è al contempo archeologico, storico-artistico e antropologico. La storia dell’arte è fatta di modelli che si trasmettono nello spazio e nel tempo: questi possono essere iconografici, compositivi e stilistici. Per secoli, prima dell’avvento della fotografia, il mezzo privilegiato di trasmissione delle immagini e dei modelli sono state le stampe. Prima le incisioni su legno e rame e poi, dagli inizi dell’Ottocento, le litografie. Proprio dalla loro capacità di diffondere modelli e, con essi, idee, valori e storie, parte la fascinazione di Cotognini, il quale le studia, le raccoglie e se ne appropria, trasformandole attraverso interventi estremamente stratificati. All’interno del suo lavoro si fanno strada pratiche d’azione differenti: un esempio è l’uso della foglia d’oro, che interviene sull’immagine arricchendo e nascondendo particolari, in un procedimento che ha qualcosa di alchemico, ma che trova anche riferimento nell’arte del medioevo, nella ricchezza astratta delle pale d’altare del XIII e XIV secolo. All’oro si aggiunge l’approccio pittorico, l’uso del colore e della biacca, attraverso i quali Cotognini censura o mette in evidenza aree specifiche dell’immagine, cambiandone i rapporti di potere all’interno della composizione. Il tutto viene poi legato dal gesto grafico, che l’artista usa per tracciare linee e schemi che sembrano far emergere strutture spaziali e rapporti interni nascosti, indagati anche da un’ampia serie di scritte a mano. Questa sorta di appunti pare aiutarci a decodificare legami e valori simbolici, ma in realtà finisce per aumentare il carattere di mistero che ammanta l’immagine nel suo essere veicolo di messaggi e contenuti. Proprio il ragionamento su questa potenzialità delle immagini, che le rende vive, eterne e continuamente interpretabili, porta l’artista ad inserire un altro tipo di intervento: le composizioni si popolano di soggetti disegnati che intervengono dall’esterno, da altri mondi, come uccelli, fiori o simboli della contemporaneità. Queste figure ci invitano ad un ulteriore livello di lettura basato tanto su libere associazioni quanto sulla consapevolezza di essere osservatori provenienti da un altro tempo. Non possiamo fare a meno di interrogarci sui significati di un’immagine, sulle ragioni che hanno condotto alla sua creazione e su come possa essere uno strumento per interpretare la nostra dimensione. Abbiamo terminato la nostra prima tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Saltoun, nella sezione Back to the future, allo stand BTTF10, sul corridoio nero. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Approdiamo adesso alla galleria londinese Richard Saltoun. Ci troviamo all’interno della sezione curata “Back to the future”, che, giocando sul titolo del famoso film “Ritorno al futuro”, propone ogni anno una selezione di ricerche storicizzate e in quest’edizione ci permette di riscoprire alcuni artisti che hanno realizzato opere dagli anni ‘60 ai 2000. L’artista con cui ci confrontiamo è nata nel 1935 ed è stata un nome di riferimento del panorama dell’arte femminista negli Stati Uniti; il suo nome è Eleanor Antin. Fra le sue opere più celebri ci sono “Carving”, una lunga sequenza di fotografie che la ritraggono nuda nel 1973, durante un periodo di tempo in cui il suo corpo veniva rimodellato dalla dieta e “100 Boots”, nato come progetto di mail art nel 1971 e che ha visto l’artista realizzare numerose cartoline con fotografie di 50 paia di stivali, di volta in volta disposti in formazioni diverse in varie località americane fra New York e la California, i due luoghi in cui l’artista ha vissuto e lavorato. Nella ricerca successiva di Antin tornano costantemente due temi: l’interesse per le immagini del passato e l’interpretazione, intesa in senso teatrale e cinematografico. Nel corso degli anni l’artista ha creato diversi alter ego, che l’hanno portata a vestire i panni di personaggi di differenti genere, etnia, status ed epoca storica, permettendole di rileggere vicende a lei lontane e di dichiarare come molte delle nostre etichette culturali siano in realtà estremamente fluide. Attraverso una grande molteplicità di pratiche, Antin approccia la storia, la letteratura, il cinema, il teatro e la fotografia. All’inizio degli anni 2000 l’artista intraprende un nuovo filone di ricerca che la porta a reinterpretare l’antichità occidentale e realizza tre serie fotografiche di grande formato intitolate “The last days of Pompeii”, “Helen’s Odissey” e “Roman Allegories”, di cui vediamo alcuni esemplari esposti in fiera. Le immagini sono state costruite come un set cinematografico, con l’uso di scenografie, costumi e attori e restituiscono degli scenari legati all’antica Roma, nei quali però spesso si insinuano elementi contemporanei. Questi tableaux vivants fotografati pongono a confronto la società attuale con quella dell’antichità, riflettendo su alcune dinamiche si ripetano nella storia, per esempio su come gli Stati Uniti siano nella politica globale moderna il parallelo dell’Impero Romano sorto duemila anni fa. La decadenza e l’essere sull’orlo della caduta sono ben manifestati in Last days of Pompeii, profeticamente realizzata un mese prima dell’11 settembre, mentre nelle allegorie romane tutto è pervaso da un senso più malinconico e da una riflessione sul rapporto con la morte, legato anche alla perdita della sorella da parte dell’artista. I riferimenti visivi scelti da Eleanor Antin per queste serie sono i quadri dei pittori del XIX secolo come Gêrome, Couture e Alma Tadema, oltre a un Trionfo di Pan di Poussin citato quasi letteralmente. Così facendo l’artista crea un sentiero che unisce antico e contemporaneo, attraversando una società del passato, quella ottocentesca, che aveva prodotto un’idea dell’antico mediata dalla sensibilità del proprio tempo. I quadri presi come ispirazione vengono scelti come immagini portatrici di valori stratificati, le cui rielaborazione e riproposizione aprono molteplici orizzonti di interpretazione di temi universali di carattere estetico, esistenziale, storico e politico. Abbiamo terminato la nostra seconda tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Layr, nella sezione Present Future, allo stand PF1, sul corridoio bianco. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci siamo spostati di pochi passi e siamo entrati nella sezione Present Future, dedicata ai giovani artisti e alle nuove tendenze del panorama artistico internazionale. La galleria Layr di Vienna espone una serie di opere pittoriche di un artista nato a Innsbruck nel 1990 che vive e lavora a Berlino. Il suo nome è Matthias Noggler. Nonostante appartenga ad una generazione e ad un’area geografica totalmente diverse, la sua ricerca ha degli interessanti punti di contatto con quella di Eleanor Antin, anche se ad un primo sguardo non si direbbe. Entrambi gli artisti guardano all’arte del passato per parlare del presente. I lavori di Noggler non sono grandi fotografie, ma pitture di piccolo formato, realizzate su tavola o carta con la tecnica della gouache, anche chiamata guazzo: un particolare tipo di tempera resa più opaca e pesante grazie all’aggiunta di gesso o biacca e di un composto di colla naturale. Questa tecnica pittorica ebbe particolare fortuna nel XIX secolo e fu usata da pittori come Turner e gli impressionisti. La pittura di Noggler negli ultimi anni ha variato spesso formato e approccio: i suoi quadri dipinti fra il 2015 e il 2018 erano caratterizzati da un cromatismo molto acceso e da un tono decisamente grottesco. Usando un modo di dipingere all’antica, il pittore rappresentava scene di vita quotidiana legate alle condizioni sociali della contemporaneità, spesso attraversate da un senso di disagio, con un tono sfrontato che trovava riferimento nelle grafiche pubblicitarie e nella caricatura. Il repertorio d’immagini al quale l’artista attingeva era quello dei social network, dei telegiornali e dei servizi di costume, ma le situazioni di degrado da lui composte erano così estreme e ridondanti da risultare assurde, pur senza mai essere comiche. Le opere in mostra ad Artissima, realizzate nel 2022, invece, hanno un tono più intimo e ritmi più pacati. L’uso dei colori e la delineazione delle figure richiamano immediatamente la pittura espressionista e la Nuova oggettività tedesca. Tuttavia il rapporto con l’arte dei secoli precedenti è più sottile di quanto appaia e non si limita a questo dato stilistico. La serie esposta ruota attorno ad un tema ricorrente che è l’abuso di alcol. Si può notare come tornino continuamente, in più forme, immagini di calici, bicchieri e bottiglie. Quello che non è semplice notare, invece, è che Noggler nasconde in questi quadri riferimenti a specifiche opere della storia pittorica rinascimentale. L’iconografia del Compianto è richiamata nell’opera dal titolo “The first poisoning” e guardando la posizione delle tre figure di un’opera che si trova sulla parete più corta, un occhio allenato potrà riconoscere una celebre Pietà di Giovanni Bellini conservata presso la Pinacoteca di Brera. La scelta di rifarsi a iconografie cristiane derivate dalla pittura di grandi maestri antichi non può essere solo una fredda citazione. L’artista non sta neanche dichiarando semplicemente quali siano le sue fonti di ispirazione. Qui invece l’immagine sembra riproposta come veicolo di valori universali: la sofferenza di Cristo, alle cui rappresentazioni la società occidentale è visivamente abituata, è presa come paradigma della sofferenza dell’uomo e il riferimento al passato agisce su di noi in modo quasi subliminale. Abbiamo terminato la nostra terza tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Ana Mas Projects, nella sezione Disegni, allo stand DS2, restando sul corridoio bianco. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci troviamo ora in un’altra delle sezioni curate della fiera, ovvero Disegni, nata nel 2017 e interamente dedicata alla produzione grafica e alle opere su carta. Siamo presso la galleria Ana Mas Projects, aperta a Barcellona 7 anni fa e attiva anche in Porto Rico, che espone una selezione di opere dell’artista catalana Regina Gimenez. Fra i momenti che hanno scosso maggiormente il mondo delle immagini nella storia dell’arte c’è indubbiamente la presa di distanze dal figurativo che avviene negli anni dieci del Novecento con le prime ricerche astratte di Kandinskij. Il mondo si trova a confrontarsi con un nuovo tipo di immagine e con una pratica che manterrà da quel momento in avanti una sua autonomia di percorso e che verrà declinata in molti modi differenti. Le opere di Regina Gimenez che vediamo sono certamente produzioni astratte, basate su rapporti fra colori e forme geometriche, principalmente originate dal motivo circolare. L’eleganza e l’equilibrio della composizione, così come l’attenta selezione cromatica rendono questi lavori immediatamente attraenti e appaganti, risvegliando al contempo in noi qualcosa di intimamente familiare. Questo effetto è dovuto al rapporto di Gimenez con l’immagine, che è fin dall’origine più complesso di quanto possa apparire. L’artista, ricercatrice onnivora di forme, che ha dedicato parte della sua produzione a collage che includono fotografie trovate in riviste e mappe geografiche, trova ispirazione nel confronto con fonti d’immagini anche molto lontane fra loro. Nelle sue opere possiamo notare riferimenti che si fanno quasi citazioni della pittura astratta delle avanguardie storiche, con punti di contatto con Mirò, i costruttivisti e Sonia Delaunay, che in Spagna ebbe un’esperienza formativa essenziale. Non è un caso che le opere di Gimenez e Delaunay siano state esposte in dialogo in una mostra presso il Patio Herreriano di Valladolid nel 2021. Ma il materiale di partenza su cui l’artista catalana immagina le proprie composizioni ha anche tutt’altra provenienza, esterna al mondo dell’arte istituzionale. Da molti anni infatti Gimenez pone alla base delle sue riflessioni grafiche gli atlanti, i manuali didattici usati per l’insegnamento delle materie scientifiche nelle scuole e i testi divulgativi di astronomia. Il suo lavoro spesso parte proprio dalla fascinazione per le tavole illustrate di queste pubblicazioni, sulle quali opera un’azione di estrazione e riduzione, riportando in pittura le pure forme con i loro rapporti di proporzioni e distanze. Ecco che quei cerchi evocano in noi qualcosa, il ricordo di esperienze visive diverse, vissute tanto nelle sale dei musei quanto sui banchi di scuola: in origine erano pianeti su un libro e poi si sono incrociati con la memoria storico-artistica per giungere fino a noi come opere personali di un’artista. Con Gimenez ci confrontiamo quindi con due fenomeni interessanti per il nostro percorso: lo sguardo verso l’arte contemporanea storicizzata e l’interesse per le immagini provenienti da contesti popolari di grande diffusione. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Massimoligreggi, al numero 10 sul corridoio grigio. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
La galleria in cui ci troviamo ora, per la nostra ultima tappa, è la Massimoligreggi, una galleria catanese, ma l’artista di cui parleremo è nato a Cuba. Abbandoniamo questa volta le vie dell’incisione e della pittura per dedicarci all’immagine fotografica e alla sua particolare potenzialità: l’invenzione e la diffusione della fotografia hanno infatti permesso al mondo di costruire un nuovo rapporto con le immagini, più quotidiano. La capacità della fotografia di essere continuamente riproducibile la rende uno strumento potentissimo di comunicazione e quindi di condizionamento socio-culturale. Con il reportage e l’editoria d’informazione nasce l’immagine mediatica. Il rapporto fra il Novecento e la fotografia è al centro della ricerca di questo artista da almeno 30 anni. Lui si chiama Antonio Eligio Fernández, si firma col nome d’arte Tonel, ha un passato da disegnatore satirico e oggi è artista, ma anche critico e curatore indipendente, nonché docente presso alcune importanti università del Nord America. Tonel nasce L’Havana nel 1958, pochi mesi prima che i rivoluzionari destituiscano Batista realizzando una svolta importante nella storia del secolo scorso. La Cuba in cui cresce il giovane Antonio è quella che deve riuscire a sopravvivere e a trovare una nuova identità, schiacciata fra le pressioni statunitensi, la volontà di ricostruzione rivoluzionaria e la presenza ingombrante dell’Unione Sovietica, che oltre a essere la più grande potenza comunista, era una delle poche economie a sostenere commercialmente l’isola rifiutando l’embargo degli USA. L’aver visto gli anni 60 e 70 da questa particolare prospettiva lascia un segno forte in Tonel, il quale resta affascinato dalle dinamiche della Guerra Fredda e dal carico mediatico prodotto dalle potenze a fini di propaganda. Qui entrano in gioco le immagini che segnano la crescita dell’artista e che si stratificano nella memoria visiva di tutto il mondo: le fotografie dei presidenti americani e dei leader comunisti, attraverso i giornali e servizi televisivi, si fondono a quelle della guerra in Vietnam, del muro di Berlino e della corsa allo spazio. Tutto è sottoposto alla retorica politica dei blocchi contrapposti, dall’informazione al cinema all’editoria e l’immagine è il veicolo privilegiato della comunicazione, che sia essa spettacolare o subliminale. Tonel nelle sue opere rilegge e rielabora costantemente il secondo Novecento, sia raccogliendo e riutilizzando immagini, sia attraverso gli strumenti del disegno, del collage, del libro d’arte e del suono. La sua storia della Guerra Fredda è costruita attraverso fatti storici, filtri mediatici, ricordi personali e situazioni di fantasia. L’opera che incontriamo è strettamente imparentata con una grande installazione presentata alla Biennale di Berlino del 2014, intitolata Commerce: una grande quantità di materiali prodotti e trovati, esposti in teche come in un archivio o in una mostra storica. Su tutto campeggiavano la scritta in cirillico “targovlia”, cioè “commercio” in russo, realizzata con tondini da cemento armato, e una serie di ritratti a china dei capi dei Paesi del Consiglio di Mutua Assistenza Economica, organizzazione commerciale comunista di cui Cuba entra a far parte nel 1972, come economia debole, quindi inevitabilmente dipendente da quella sovietica. I disegni dei leader sono realizzati ripassando i contorni di alcune celebri foto che li ritraevano. In questo caso invece il tema dell’opera è la lunga guerra civile angolana, iniziata nel 1975, che ha visto contrapporsi due fazioni: da un lato il Movimento Popolare di Liberazione, sostenuto dall’Unione Sovietica e da Cuba e dall’altro l’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale supportata da Stati Uniti, Francia, Sud Africa e Regno Unito. Si è trattato di una guerra per procura che ha coinvolto mezzo mondo, qui presentata attraverso i fac-simile dei documenti studiati dall’artista e i volti dei leader dei Paesi che vi hanno partecipato. Con le opere di Tonel l’immagine si fa testimone del passato, ma anche strumento di rilettura critica, in alcuni casi satirica, di una realtà storica ormai inscindibile dalla sua manifestazione mediatica. Abbiamo terminato la nostra quinta e ultima tappa. Speriamo che questo percorso ti abbia stimolato e incuriosito. Se vuoi un altro punto di vista sulla fiera, torna all’info point o sulla landing page delle AudioGuide e seleziona un altro podcast! A presto e buona Artissima!