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Issue n. 15 | Massimo Minini intervistato da Luigi Fassi

5 Ottobre 2018 Artissima Stories

Luigi Fassi: Buongiorno Massimo. Nel corso della tua carriera hai partecipato e continui a partecipare a fiere in tutto il mondo. Quando è stata la tua prima volta ad Artissima e quali erano le motivazioni nel prendervi parte?

Massimo Minini: Nella mia carriera, a occhio, ho allestito 300 mostre in galleria (45 anni x 6/7 mostre all’anno) e ho partecipato a 40 x 5 = 200 fiere. Ho montato personalmente con gli artisti le mostre e con i miei ragazzi le fiere. L’allestimento di una mostra o fiera è il momento più bello, di crescita. Per questo i galleristi che non hanno il tempo per farlo – non hanno a volte nemmeno il tempo per intervenire alle inaugurazioni – non possono capire.

Artissima? La fiera l’ha inventata il mio amico Roberto Casiraghi con Paola Rampini, ricordo i primi anni con grande simpatia. Lui faceva il burbero ma non ci riusciva: grande ironia, grandi discussioni. Poi Andrea Bellini, Sarah Cosulich, la Regione, Luci d’Artista, la città coinvolta, i musei, le fondazioni… In poco tempo è diventata una bellissima fiera.

LF: Negli anni di attività, soprattutto agli inizi, quale è stato il tuo rapporto con la scena artistica torinese, dagli artisti, ai collezionisti alle istituzioni?

MM: Torino è stata una città fondamentale per l’arte italiana di questo secolo. Non possiamo dimenticare il binomio Casorati / Gualino, gli intellettuali del gruppo Einaudi come Elio Vittorini, ma anche Adriano Olivetti e la Fiat che hanno prodotto un effetto di sviluppo incredibile. Nell’arte il gruppo dei sei prova una pittura intimista ma negli anni ‘60 arriva la bomba dell’Arte Povera e anche chi non stava a Torino ne viene attratto per una serie di fortunate coincidenze. Giulio Paolini da Bergamo, Mario Merz da Milano, Germano Celant da Genova. Punta su Torino anche Luciano Fabro. Salvo vede tutto questo movimento e decide di smettere la pittura per buttarsi nella mischia, da cui uscirà presto per ridiventare pittore.

Paolo Icaro che stava a Torino va invece a Roma, poi a Genova da Emilio Prini, poi in America e perde il treno. Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto, molto importanti per gli inizi del poverismo, seguiranno strade diverse. Mondino meno ortodosso, Pistoletto più forte, Paolini poetico cantore della bellezza un momento prima che si affacci al suo balcone… Nascono anche gallerie importanti come Galatea, Notizie di Luciano Pistoi – che porterà in Italia il gruppo Gutai e i francesi con Michel Tapié – Il Punto di Remo Pastori dove il giovane Gian Enzo Sperone inizia. Sperone appunto che quando apre la sua galleria si riferisce subito al mondo – Ileana Sonnabend, Leo Castelli, Konrad Fischer, Paul Maenz – creando un riverbero formidabile. Stein (Boetti e Mondino) Sperone (Merz, Zorzi, Anselmo) e Pistoi (Paolini, Fabro..) si dividono gli artisti poveristi. Pistoletto prende il posto di Casorati come maître à penser, Piero Gilardi fa l’agitatore e viaggia nel mondo per conoscere e invitare artisti straordinari da Richard Long a Ger Van Elk a Gilbert and George. Tutto questo agitarsi produce effetti incredibili, come una valanga.

LF: È vero, la nascita dell’Arte Povera ha rivolto le attenzioni di tutto il mondo su Torino. E’ individuabile secondo te una specificità dell’ambiente artistico torinese, un suo genius loci?

MM: Ovviamente l’effetto calamita è stato formidabile, sono nate gallerie (Menzio, Paludetto, Persano, Tucci Russo, Simonis, Remolino, In-Arco), librerie specialissime come Maffei, musei come la GAM e Rivoli. Anche le fondazioni Sandretto Re Rebaudengo e Merz danno un bel colpo, e il GFT di Marco Rivetti si butta nella mischia come una meteora – appare e sparisce in un batter di ciglia. Paolo Mussat e Paolo Pellion fissano momenti irripetibili nelle loro fotografie. La fondazione CRT entra a gamba tesa. Insomma altro che genius loci! Torino é pazzesca e la fiera è la ciliegina sulla torta che dal poverismo ha cavato un capolavoro. Senza dimenticare una figura come Umberto Allemandi che dirige da giovane la rivista d’arte di Bolaffi per poi fondare il Giornale dell’Arte, bellissima formula tabloid che figlierà nel mondo tanti giornali gemelli.

LF: Nella tua esperienza di gallerista che tipo d’impatto ha avuto la partecipazione alle fiere sull’attività di mostre in galleria?

MM: Le fiere sono indispensabili se prese in modica quantità. Le gallerie che fanno tutte le fiere annoiano. Cinque fiere all’anno è il giusto tasso… per le gallerie che possono permetterselo e possono scegliere, non essere scelte, è un numero perfetto. Poi subisci la pressione di chi ti vorrebbe nella sua fiera. A volte è difficile dire no… Comunque, almeno per una galleria di città piccole, una fiera da moltissimo.

LF: Nel corso degli anni hai visto i tuoi collezionisti modificare le loro modalità e strategie di acquisizione in seguito al moltiplicarsi delle opportunità offerte dalle fiere? Le fiere ti hanno aiutato a fidelizzare i collezionisti o li hanno resi più volubili e difficili da intercettare?

MM: La fiera è un’occasione per vedere collezionisti o musei o consiglieri. Per loro è un’occasione per vedere opere che altrimenti giacciono nei depositi. Un collezionista che conosci bene alla fine viene a sedersi affranto da 10 ore di giri in fiera e sovente acquista da te, che lo conosci bene…

LF: Pensi che per i giovani galleristi esordienti sia un bene o un male la necessità di doversi confrontare da subito con le fiere e il loro ritmo frenetico?

MM: Io ho fatto Bologna a due anni di galleria e Basilea a tre. Come vedi non ho avuto traumi, devi imparare a gestire la cosa e avere i soldi per pagare i conti sempre più salati.

LF: Il tuo ricordo più bello e quello più infelice in relazione a una fiera?

MM: Il ricordo più bello ovviamente la prima a Basel. Alighiero Boetti mi da due enormi biro rosse 150 x 150 cm ciascuna, passa la commissione del museo e acquistano per la Emmanuel Hoffmann Stiftung. L’opera é nel loro catalogo, doppia pagina, fiammante, appena stampato 44 anni dopo.

Il più brutto? Quando mi hanno messo fuori da Frieze, proprio a me che avevo appena spiegato come si fa a farsi prendere… da ridere. Comunque mi hanno detto che potevo fare appello. Ho risposto gentilmente che no, rispetto il giudizio della commissione.

LF: Faresti mai il direttore di fiera se te lo chiedessero?

MM: Assolutamente no. Il direttore di fiera è una trappola. Non decide lui ma la commissione e lui rischia di rimanerne vittima. Se la fiera è debole tu cerchi di portarci colleghi che poi non te lo perdoneranno. Se la fiera è forte, devi fare il killer. Ho già abbastanza grane, ci mancherebbe questa…

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