Dina Danish, di origini egiziane, nasce a Parigi nel 1981 e vive e lavora attualmente ad Amsterdam.
Il lavoro di Dina Danish mette insieme la preoccupazione dell’arte concettuale riguardo al linguaggio e la struttura, con l’interesse all’equivoco, il fraintendimento, la superstizione (Please Step in with your Right Foot, Please Step Out with your Left Foot, 2013). Le particolarità linguistiche, come il ritmo delle frasi, la pronuncia delle parole, la balbuzie, rappresentano il materiale per opere spesso assurde o casuali. Alcuni dei lavori dell’artista si basano sull’analisi approfondita di soggetti apparentemente banali, come i chewing gum o gli scioglilingua. Il risultato finale ha quasi sempre un tono ironico e umoristico.
Dina Danish, Halim and the whistler, 2011-in corso
Halim and the whistler fa parte del gruppo di lavori che reinterpretano e ricreano le vicende accadute al cantante egiziano Abdel Halim Hafez durante una sua performance al teatro del Cairo. Le serie di immagini è stata raccolta dall’artista e poi modificata nel tentativo di avvicinarsi a quello che può essere davvero accaduto durante quello spettacolo.
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Un paio di settimane fa, credo di aver letto, sentito o inventato questa teoria: le persone che comunicano in una seconda lingua sono meno portate a essere fraintese rispetto agli altri. Questo perché sono più consapevoli della definizione di ogni parola che essi pronunciano o scrivono. Parlare nella nostra lingua madre, del resto, è un gesto automatico, in cui la consapevolezza dei significati e la definizione delle parole è diventata troppo astratta. La mia mente e forse la mia poca memoria mi portano a credere che questa teoria è uno studio accademico piuttosto rilevante anziché una semplice diceria. Ed è esattamente questo processo cognitivo a interessarmi. A chi importa che questa informazione sia vera e rilevante o fuorviante? In molti casi nel mio lavoro, situazioni come queste sono rivelazioni fondamentali.
Dina Danish, To Be A Pinball, 2015
«My vocabulary did this to me» (il mio vocabolario mi ha fatto questo), confessò il poeta Jack Spicer in uno degli ultimi momenti di lucidità, prima che decedesse. Un’affermazione finale che ha ispirato l’artista Dina Danish a riflettere su come qualcosa d’intangibile, come le parole, possa divenire minaccioso.
In occasione di una programmazione di performance, tenutasi lo scorso novembre presso la South London Gallery, Dina Danish ha così iniziato a esplorare la potenzialità dell’elemento linguistico in ambito artistico. Per comprendere la condanna che gravava sull’opera e sulla vita del Poeta, al punto di fargli insorgere tale timore, Dina ne ha studiato la biografia in cerca di tracce che riportassero a questo senso d’incompletezza.
Jack Spicer, parte della Reinassance poetica di San Francisco, fu tra i fondatori della galleria “6” in Fillmore Street, dove venne lanciata la Beat Generation; tuttavia egli preferì restare un outsider del gruppo. Ispirato dal Surrealismo, sosteneva che la sua poesia arrivasse a lui attraverso presenze esterne – Marziani- e che lui funzionasse come un trasmettitore di versi e rime che gli erano “dettati”.
Le parole giungevano a lui come frequenze attraverso una radio, finalmente dando un significato alla sua presenza sulla terra. Parole, che divennero alla fine “thing-language” (oggetto-linguaggio), come nel titolo di un suo pezzo in cui dichiarò che non ci sarebbe significato nelle cose, se non ci fossero parole per descriverle.
La condanna che il Poeta lanciò verso le sue stesse parole faceva parte del suo distanziamento dallo status di artista, che espresse con un’eloquente metafora visiva – paradossalmente uno degli elementi più concreti del suo vocabolario-. Con questo intento concepì l’idea di un poeta “abitato” da un flipper, dove le palline colpiscono le superfici interne del gioco per fare punto – nel suo immaginario la lapide ideale della propria tomba-.
Seguendo la logica per cui se le parole possono rappresentare una minaccia per il poeta, allora anche le forme possono esserlo per l’artista, Danish decide di evitare la realizzazione di oggetti autonomi e definitivi. Di conseguenza, questa metafora visiva la porta a trasformare la galleria in uno spazio in cui viene trasmessa poesia (o arte).
Come le palline, che devono continuare a girare all’interno del gioco aspettando il momento giusto per manifestare il loro potenziale, i visitatori di “To Be a Pinball” attivano l’ambiente costruito all’interno della mostra: un gioco a grandezza naturale.
L’incontro tra una persona e uno dei props presenti nello spazio è l’unico momento che conta; questi ultimi, perdendo ogni rilevanza formale, divengono facilitatori per la trasmissione di energia, significati, senso. Danish, interessata alla mimesi e alla ripetizione di azioni, “riscrive” biografie e vicende del passato. Senza focalizzarsi sull’esattezza storica dei fatti interpreta le intenzioni dei loro attori, creando nuove possibilità di lettura.
Se “Le parole sono ciò che si attiene al reale” (Words are what stick to the real), come Jack Spicer scrisse in “After Lorca”, allora, mimare lo schermo di un biliardino si attiene perfettamente alle parole stesse di Spicer.
Emma I. Panza
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Dina Danish, Practicing Foreign Languages, 2007Dina Danish, Square Dance, 2008Dina Danish, Couch Swimming, 2009Dina Danish, Counting (dac dac dactylonomy), 2011
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