Tappa 01
Present Future PF 7
Scoprila al minuto 04:01
Tappa 02
Back to the Future BTTF 10
Scoprila al minuto 08:02
Tappa 03
Disegni DS 3
Scoprila al minuto 13:03
Tappa 04
Corridoio Marrone 5
Scoprila al minuto 17:10
Tappa 05
Corridoio Rosa B-14
Scoprila al minuto 20:50
Buongiorno! Ti diamo il benvenuto ad Artissima 2022. Questo è il progetto AudioGuide e stai ascoltando il percorso numero 2 intitolato MIND THE GAP, dedicato a femminismi, questioni di genere, diritti civili e LGBTQIA+. Nel corso della storia dell’arte, non solo contemporanea, queste tematiche sono state spesso considerate minoritarie, collaterali, ma l’epoca storica che stiamo attraversando non è più disposta a concedere sconti e il dibattito è fervente. Dallo scorso settembre le donne iraniane animano proteste contro l'oppressione femminile, la corruzione e la povertà, la discriminazione etnica, il conformismo intellettuale: in memoria di Mahasa Amini si tagliano i capelli con azioni che hanno un carattere quasi performativo. In Italia, The Milk of Dreams, la 59esima Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani, è la prima nella storia in cui il numero delle artiste supera quello degli artisti. A supporto di ciò, la storica dell’arte inglese Katy Hessel ha appena pubblicato un testo che sta facendo molto parlare di sé: The Story of Art…Without Men. Il manuale è lanciato con un claim geniale: “potresti fare facilmente il nome di dieci artiste donne? No? Allora questo libro fa per te”. Hessel parte dal presupposto che quando si tratta di artiste sia sempre necessario accostarle a uomini – maestri o amanti che siano, ma la verità è che si può parlare di Dora Maar senza per forza ricordare Picasso, e che l’idea per il rivoluzionario orinatoio di Duchamp sarebbe in realtà venuta alla baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven. Il dibattito è così attuale e diversificato che nemmeno il mondo della moda poteva esserne esente. A fine settembre, in occasione della Milano Fashion Week, Alessandro Michele, visionario direttore creativo di Gucci, ha portato in passerella Twinsburg, collezione genderless sui cui tessuti sono state stampate le grafiche di FUORI!, il mitico Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. Fondato a Torino nel 1971, animato da Angelo Pezzana, FUORI! fu un momento fondativo nella storia del movimento di liberazione omosessuale in Italia, caratterizzato da creatività e vivacità intellettuale. All’indomani della mancata approvazione da parte del Parlamento Italiano di una legge contro la discriminazione nei confronti di donne, disabili e persone LGBTQIA+, all’indomani del suicidio di Cloe Bianco, professoressa che lo scorso giugno, dopo il coming out come donna trans, si è tolta la vita dopo essere stata demansionata e licenziata, certe tematiche non possono più essere ignorate, ma al contrario essere incluse in un dibattito quotidiano. Noi, ad Artissima, ce ne occupiamo attraverso uno specifico percorso in fiera, in compagnia di artiste e artisti provenienti da tutto il mondo, portatrici e portatori di narrazioni diverse, mai semplici, che però direzioneranno i nostri sguardi verso una nuova prospettiva. Aperta, inclusiva, intersezionale. Io sono Daniele Licata e ti accompagnerò in questo viaggio. Siamo pronti per partire. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria IMPORT/EXPORT, che si trova nel corridoio centrale, settore PF7, dove cominceremo il nostro tour. Schiaccia play una volta che sarai lì.
Ci troviamo ora nella sezione Present Future, alla galleria Import/Export di Varsavia, lungo il corridoio centrale, settore PF7, dove parleremo di SAGG Napoli. Artista visiva, performer, arciera professionista. Come Orlando, protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf, Sofia Ginevra Giannì non ama le definizioni semplicistiche, ed è per questo che sceglie di abbracciarle tutte con un nome d’arte che suona come una dichiarazione d’intenti: SAGG Napoli. Nata nel capoluogo campano nel 1991, SAGG Napoli vive e lavora a Londra, dove conduce una ricerca personalissima e attuale sulle sue origini partenopee. Lei stessa, nel raccontare la sua pratica, parla di ‘South Aesthetic’: una costellazione di simboli, allusioni e sì, anche stereotipi, che rendono l’estetica del meridione italiano conosciuta in tutto il mondo. Nell’epoca in cui Netflix fa record d’ascolti con una serie come Gomorra e un rapper come Liberato arriva all’attenzione anche degli ascoltatori più sofisticati, le opere di SAGG Napoli aggiungono un tassello irridente, mai scontato e super femminile. Nei lavori dell’artista il punto di partenza è spesso lei, la città di Napoli. Un incontro di etnie, culture e sottoculture, un territorio di lotte e dominazioni, un paesaggio al quale associamo leggende e modi di dire. Ecco, SAGG Napoli non teme quelle dicerie, al contrario le rende protagoniste: pensiamo alla performance SAGG Demonstration, del 2016, in cui l’artista in persona ha animato i caratteristici Quartieri Spagnoli con degli scooter. Nell’immaginario comune il capoluogo campano è spesso un crocevia di motorini che sfrecciano in maniera libera e a volte incontrollata, con ragazzini che viaggiano ‘n goppo’ o mezz’, come si suol dire. A Napoli, dice Sofia Ginevra, ‘lo scooter è l’estensione delle gambe’, e nel suo lavoro è un veicolo indispensabile per compiere azioni che sono autentici riti di passaggio adolescenziale. E poi c’è il corpo, altro elemento fondamentale nel colorato glossario dell’artista. Un corpo che tende l’arco con vigore, che si flette: lo stand di Present Future è disseminato di bersagli colorati, trafitti. La pratica di arciera professionista si fonde con quella di artista e donna che, nel prendere la mira, ricerca il suo ruolo in società. Dice l’artista: per secoli, una donna con l’arco è stata considerata una guerriera. L’arco è percepito come un’arma. Ma io non mi riconosco in questa immagine: perché vorrei essere una guerriera? Chi è il nemico? E se il vero nemico fosse un sistema di valori e distrazioni che non mi consentissero di essere la parte migliore di me stessa? Non solo. Essere arciera, ci dice SAGG Napoli, significa avere pazienza. Fidarsi di un processo. Stabilire intenzioni e obiettivi, consentendo ai muscoli e alla mente di sincronizzarsi coi movimenti. Se manchi il bersaglio, impari ad accettare che le cose si rompono, e non sempre hai realmente bisogno di ripararle”. Abbiamo terminato la nostra prima tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Richard Saulton, sul corridoio centrale, settore BTTF10. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci troviamo ora alla Galleria Richard Saltoun, di base a Roma e a Londra, lungo il corridoio centrale, settore BTTF10. Back To The Future è la sezione curata di Artissima che ci fa fare un piccolo salto nel passato, consentendoci di scoprire e riscoprire artisti più o meno noti, spesso storicizzati, ma che a causa delle insondabili logiche del mercato dell’arte non hanno forse ancora ottenuto il riconoscimento internazionale che meritano. Quest’anno, se c’è un’artista che merita la dovuta attenzione, è proprio Eleanor Antin. Nata a New York il 27 febbraio 1935, Antin è una performer, regista e artista concettuale americana, che ha sempre esplorato le molteplici possibilità dell’arte da una prospettiva femminista. Dopo gli esordi legati all’avanguardia artistico-letteraria della New York degli anni Sessanta, Antin inizia a frequentare il Women’s Building di Los Angeles, ed entra in contatto con la vivace comunità di artisti e intellettuali di sinistra che animano l’Università di San Diego, dove insegnerà dal 1975 al 2002. Nel 1974 scrive uno statement paradigmatico: “Considero i comuni parametri della definizione del sé (il sesso, l’età, il talento, il tempo e lo spazio) come limitazioni tiranniche nei confronti della mia libertà di scelta”. E’ per questo motivo che nei video realizzati tra gli anni Settanta e i Novanta del secolo scorso Antin mette in scena personaggi che hanno origini, professioni e provenienze geografiche sempre diverse. Dal sovrano detronizzato di ‘The King’ alle ballerine frustrate di ‘The Ballerina and the Bum’, Antin interpreta ruoli e situazioni in cui i generi sessuali e le classi sociali non sono mai fissi, anticipando quel concetto che oggi è al centro di un dibattito globale: la fluidità. Back to the Future espone, tra le altre cose, il progetto di mail art intitolato 100 BOOTS: 51 cartoline fotografiche che vedono protagonisti 50 paia di stivali in gomma nera. These boots are made for walking, cantava Nancy Sinatra nel ’66. Quelli fotografati da Antin, immortalati nelle pose e nelle situazioni più disparate, dal ’71 al ’73 – con intervalli irregolari che variano dai 3 giorni alle 5 settimane – ‘camminano’, se così si può dire, dalla California a New York, fino al MoMA, il primo importante museo che li espone. A ricevere le immagini sono artisti, critici, musei, gallerie, giornali, che diventano destinatari e testimoni di una narrazione ironicissima. Nell’immaginario di Antin gli stivali vanno al mercato, in banca, addirittura in guerra; si macchiano di un crimine, e come gli esseri umani, non sanno resistere alla tentazione di una love story che, ahinoi, non avrà un lieto fine. In 100 Boots Eleanor l’artista si interroga sul significato dell’oggetto nell’arte, sulla mail art come mezzo espressivo, sulla relazione mittente-destinatario capace di plasmare l’opera. E diciamolo, le peripezie degli stivali sembrano anche anticipare quel meraviglioso nano da giardino che nel 2001 è coprotagonista de Il favoloso mondo di Amélie, il capolavoro di Jean-Pierre Jeunet. Osservando le opere di Eleanor Antin torna in mente una domanda, quella che nel 1971 la storica dell’arte Linda Nochlin si pone nel titolo di uno saggio passato alla storia: Why have there been no great female artists? (Perché non esistono grandi artiste?). La soluzione, lo sappiamo, risiede nello smantellamento del patriarcato, delle logiche dominate dallo sguardo maschile, in quei processi che in Eleonor Antin trovano un’interprete raffinata, capace di ispirare le protagoniste dell’arte contemporanea venute dopo di lei, da Mary Kelly a Cindy Sherman fino a Vanessa Beecroft. Abbiamo terminato la nostra seconda tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Kandlhofer sul corridoio bianco, settore DS3. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci troviamo ora alla Galleria Kandlhofer di Vienna, sul corridoio bianco, settore DS3. Eccoci a DISEGNI, la sezione di Artissima – unica nel panorama fieristico italiano – a dedicare un focus a questo mezzo espressivo. Qui la galleria Kandlhofer di Vienna espone una solo presentation del lavoro di Alexander Basil. Nato ad Arkhangelsk, Russia, nel 1997, Basil è stato allievo di Elizabeth Peyton, e malgrado la sua sia una produzione pittorica, il segno che vi è alla base è un elemento fondamentale. Linee curve, sinuose, morbide, che con tratto continuo sagomano quelli che sovente sono autoritratti, impegnati a tessere un curioso dialogo con lo spazio circostante. Quando nasce Instagram, Basil ha tredici anni, e l’estetica del selfie gioca un ruolo evidente nella sua formazione. Nelle sue tele, l’artista si espone con la certezza di essere visto, scrutato, nonostante le azioni che compie siano di una quotidianità disarmante. Alexander si fa la barba, Alexander si depila il petto villoso, Alexander giace su un letto con gli occhi fissi sul portatile. Con estrema naturalezza ci trasporta nell’intimità del bagno, della camera da letto in cui spesso si raffigura in compagnia di Moritz Gottschalk, partner e musa ispiratrice. I due sono spesso uniti da abbracci passionali, simbolo di una fusione totale che non teme – anzi, chiede – lo sguardo dello spettatore. Il sesso è gioia, sperimentazione, nonché una maniera per omaggiare le tele tanto amate del Maestro William N. Copley. Ma in Basil parlare unicamente di corpi sarebbe riduttivo. L’anno scorso l’artista ha presentato una mostra intitolata Claustrophobia, e la percezione dello spazio conseguente ai lockdown pandemici è un altro elemento cruciale della sua pratica. Le azioni da lui dipinte possono apparire banali perché per diversi mesi tutti noi, chiusi nei nostri appartamenti, non abbiamo fatto che compiere e reiterare gesti banali. Nella pittura di Basil, l’identificazione con l’interno domestico è tale che il volto dell’artista, a un certo punto, si fonde con esso. Spunta dalle prese di corrente, fa capolino nel vaso di una pianta carnivora, appare tra gli abiti appesi sulle grucce nell’armadio. L’artista si sdoppia, si splitta: tanti piccoli alter ego – simili al Mini-Me protagonista della saga di Austin Powers – tengono compagnia ad un narcisista solitario, che cerca di ingannare il tempo in uno spazio chiuso e rilucente, dove la pelle color Big Babol si moltiplica sulle superfici di numerosi specchi. Giocoso solo in apparenza, il lavoro di Alexander Basil è un’indagine profonda, una riflessione su come corpo e sessualità si sfogano nella costrizione delle stanze. Gli occhi dell’artista – felini, incorniciati da sopracciglia ben disegnate – ci interrogano continuamente, mentre nelle nostre menti sembra risuonare la voce di Jimi Hendrix, che nel ’68 cantava: ‘I used to live in a room full of mirrors / And all I could see was me’. Abbiamo terminato la nostra terza tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Martina Simeti sul corridoio marrone, settore 5. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci troviamo ora alla Galleria Martina Simeti, sul corridoio marrone, settore 5. Nel 1993 la scrittrice e saggista francese Virginie Despentes scuote il mondo con Baise-moi (Scopami), romanzo d’esordio pubblicato a soli 23 anni con il quale rilegge il mito di Thelma e Louise in chiave porno-pulp. Ma l’anno scorso, nel 2021, l’autrice ha dato alle stampe un testo meno pruriginoso, King Kong Theory, nel quale, oltre a portare avanti le teorie femministe che l’hanno resa celebre, scrive anche di uomini. In particolare, di tutti coloro ai quali la mascolinità canonica sta stretta, quelli che – per citare Despentes – “non sanno fare a botte, piangono con facilità, non sono ambiziosi, competitivi, sono impauriti, timidi e vulnerabili”. Osservando le opere dell’artista milanese Davide Stucchi, esposto nella Main Section di Artissima dalla Galleria Martina Simeti di Milano, le pagine di King Kong Theory risuonano nella mente, scolpendo una definizione di maschio del tutto nuova. Stucchi – che in Fiera troverete anche nella sezione Monologue/Dialogue, presso la galleria Deborah Schamoni – è nato a Milano nel 1988, dove vive e lavora come artista e scenografo. Lo spazio è un concetto fondamentale nella sua pratica: non a caso, la fiera ospita un intervento site specific che coinvolge una moquette di colore giallo precedentemente adoperata nel display di una sfilata di Prada. Attorno ad essa, lungo i muri, una serie di occhi fa capolino su drappi in denim, come se fossero spettatori silenti e morbosi al tempo stesso. Nell’opera di Stucchi nulla è realmente esplicito: tutto è suggerito, accennato, come si trattasse di una presenza che timidamente si annuncia alla realtà circostante. È tutto vulnerabile: sono vulnerabili le sculture, questi oggetti mai compiuti, spesso imballati, pronti a traslocare da un momento all’altro, perché nella vita – come nella sessualità – tutto è instabile, in perenne movimento. L’artista si serve di luci al neon, di lampade che evocano la grande stagione del design italiano, di fili elettrici che sagomano percorsi che sono anche possibilità di incontri. C’è un fortissimo desiderio che pervade questi oggetti apparentemente minimi: la luce è pulsione erotica, è ricerca dell’altro, di un ambiente domestico che, anche se per poche ore, possa essere fuoco. Davide Stucchi nutre il suo immaginario personale di influenze e citazioni colte. Nelle interviste rilascia dichiarazioni che risuonano come piccoli aforismi. Personalmente, il mio preferito è l’elenco delle tre letture essenziali per il suo percorso: gli scritti di Palazzeschi, Esplorando il corpo umano e Vogue Italia. Abbiamo terminato la nostra quarta tappa. Metti in pausa il tuo player e dirigiti verso la galleria Sweetwater sul corridoio rosa, settore 14. Schiaccia play una volta che sarai lì. Ti aspetto!
Ci troviamo ora alla galleria Sweetwater di Berlino, lungo il corridoio rosa, settore 14. E’ la sezione NEW ENTRIES, che Artissima dedica alle realtà emergenti più interessanti del panorama internazionale: hanno tutte meno di cinque anni di attività ed è per loro la prima partecipazione alla Fiera. Nello specifico, ci focalizziamo su Sweetwater, galleria berlinese fondata nel 2018 qui presente con due artiste tedesche: Luzie Meyer e Hanna Stiegeler, la protagonista del nostro approfondimento. Nata nel 1985 a Costanza, Stiegeler ha esordi che ci fanno pensare a un mito dell’arte femminista e concettuale: l’americana Barbara Kruger, che probabilmente non avrebbe mai dato corpo alle sue opere così dirette e taglienti se non fosse uscita provata da un’esperienza come Art Director per Condé Nast, la casa editrice di Vogue. Hanna Stiegeler, invece, si forma in una compagnia di e-commerce con sede a Berlino dove si occupa di fotografare a 360 gradi prodotti destinati alla vendita online. Borse, soprattutto: pochette, clutch, tracolle che nella serie Content Creation, una serie di livide serigrafie in bianco e nero su carta del 2019, vengono aperte da una mano guantata, misteriosa. Esiste un vecchio detto popolare che suggerisce di non sbirciare troppo nella borsa di una donna. L’artista, invece, apre questi oggetti con curiosità morbosa, inscenando un’atmosfera a metà strada tra l’atto sessuale, la visita ginecologica e la scena del crimine. Come Kruger, anche Stiegeler è interessata al linguaggio pubblicitario, in particolare quello che studia sfogliando i magazine di moda, che sin da quando era piccola le vengono indicati come diseducativi. Ciononostante lei, nel 2014, li prende come fonte d’ispirazione per un libro d’artista intitolato Consumer’s Poetry, esercizio quasi dadaista in cui frasi e claim tratti dalla pubblicità diventano poesie. Nello stesso anno, Stiegeler dà alle stampe un’altra pubblicazione, ‘Fendi Mag’, dove l’ispirazione principale proviene dalle campagne di Fendi, il brand di alta moda che richiama un altro verbo allusivo, ‘fendere’. Emblematiche sono però anche due serie del 2018, intitolate ‘Disguise’ e ‘Il figlio mistero’. ‘Disguise’ reinterpreta una serie di paparazzate in cui star femminili coprono il volto dai paparazzi con maschere, cappucci, sciarpe Chanel che diventano burqa. ‘Il figlio mistero’, invece, è una serie in cui una singola immagine viene stampata più volte su un singolo foglio di carta, dando forma a doppie, triple esposizioni, con una selezione di star che parte dall’attrice italiana degli anni ’60 Tamara Baroni per arrivare all’influencer americana Kylie Jenner, Stiegeler traccia una timeline fotografica ideale che racconta come, negli anni, i media abbiano raccontato il corpo femminile attraverso una serie di codici ripetuti, speculativi, misogini. In fiera ammirerete due coppie di serigrafie: una parte presenta pattern geometrici, ordinati, schemi di pensiero ricavati da un codice medievale preservato alla Biblioteca di Stato di Berlino. L’altra parte, invece, riproduce la lotta tra due wrestler, un’immagine proveniente dalle fanzine della subcultura underground tedesca anni Settanta. Abbiamo terminato la nostra quinta e ultima tappa. Speriamo che questo percorso ti abbia stimolato e incuriosito. Se vuoi un altro punto di vista sulla fiera, torna all’info point o sulla landing page delle AudioGuide e seleziona un altro podcast! A presto e buona Artissima!