Lorenzo Benedetti: La prima volta che ho visitato la tua galleria è stato in una buia notte autunnale del 2007. L’area mi ha dato la sensazione di non essere molto frequentata dalle persone dell’arte; fatta eccezione per il centro Le Plateau non c’era molto da vedere, e mi chiedevo come fossi finito da quelle parti. Ma ora dopo quindici anni Belleville è un quartiere riqualificato, pieno di gallerie e attività culturali.
Jocelyn Wolff: Quando cominciai a cercare uno spazio a Parigi per aprire la mia galleria, inizialmente pensai a Rue Louise Weiss, il più recente quartiere di gallerie sorto in città. Ma quella era una storia appartenente agli anni ’90, non la mia, ed io non volevo essere l’ultimo ad aprirvi una galleria, come un fanalino di coda. Non avevo molte possibilità. Belleville era molto parigino, per nulla turistico, a buon mercato, abbastanza in centro e molto vivace. Ho sentito che era il posto giusto per cominciare la mia storia.
LB: Cinema Divisible di Clemens von Wedemeyer è stata la prima mostra nella tua galleria, che all’epoca aveva sede in Rue Rebeval. Era anche la prima personale dell’artista in una galleria commerciale, e da allora hai mostrato molti giovani artisti ancora senza rappresentazione.
JW: Clemens von Wedemeyer è stato il primo artista a entrare a far parte del nostro programma. Ricordo di quando a Berlino mi chiese chi fossero gli altri artisti ed io risposi che lui sarebbe stato il primo. Una galleria d’arte contemporanea ha il dovere di correre dei rischi, perché questo significa accettare – o almeno provarci – di poter essere smentiti in futuro. Ogni grande artista ha cominciato da qualche parte a un certo punto, e accompagnare un artista agli inizi del suo percorso è molto gratificante e appassionante. Nessuno conosce il futuro; puoi solo sapere che rispecchierà quello che costruisci nel presente. Il futuro è dissolto nelle azioni presenti, così è l’opera in costruzione. È vertiginoso e affascinante testimoniare la nascita di un’opera e potervi partecipare.
LB: Nel frattempo hai anche esposto una generazione di artisti più vecchi che hanno avuto un ruolo importante nel periodo concettuale tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, come Franz Erhard Walther e William Anastasi. Questa prospettiva storica crea un’interessante relazione con gli artisti più giovani della galleria, specialmente intorno al tema della scultura. Quando hai cominciato a pensare che il passato avrebbe potuto avere un ruolo nel tuo programma?
JW: Ho conosciuto Franz Erhard Walther allo STUK Arts Center di Leuven, in Belgio, dove il curatore Pierre Bal-Blanc aveva sviluppato uno dei capitoli della sua serie di mostre La Monnaie vivante. Prinz Gholam presentavano una performance, e così anche Walther. Vederlo eseguire una performance per la prima volta, dopo aver visto così tanti suoi lavori nei musei, è stato come assistere a un automa che prende vita. Gli ho proposto una mostra il giorno stesso, e ne è derivata una conversazione affascinante. Da questa conversazione ho sentito naturalmente il bisogno di contestualizzare, di fare ricerca, per capire meglio le sfide estetiche e i valori di un’altra generazione. Sono arrivato a William Anastasi lavorando con il critico d’arte Erik Verhagen a una mostra sul proto-concettualismo. Mentre quella di Colette Brunschwig è un’altra storia – la mia conversazione con lei è nata a metà degli anni ’90.
LB: L’aspetto curatoriale è molto presente nel tuo programma, dalla lista degli artisti all’allestimento delle mostre fino agli stand in fiera. Molti dei tuoi visitatori sono curatori, e come mi dicevi, hai degli scambi intensi con loro. Le tue attività sono spesso focalizzate verso la produzione di opere d’arte e la promozione degli artisti presso le istituzioni pubbliche. Prima di aprire la galleria hai lavorato in un centro d’arte. Quanto si può definire la galleria un’esperienza curatoriale?
JW: A dire il vero non ho mai riconosciuto dei confini precisi tra la professione di gallerista e la pratica curatoriale. C’è un souplesse d’intervention connesso al fatto che il nostro interlocutore principale è l’artista, che necessariamente cambia il modo in cui percepiamo lo spazio e usiamo le opere. Su un altro livello ognuno deve usare la propria sensibilità per relazionarsi ai lavori.
LB: Dalla curatela alla storia dell’arte: io m’interesso sempre agli archivi delle gallerie. Siccome le gallerie si concentrano su pochi artisti e ne seguono molto intensamente lo sviluppo della carriera, spesso dispongono della documentazione più completa al loro riguardo, specialmente per quanto concerne installazioni, performance, e protocolli di esposizione. Questi archivi hanno un valore enorme e spesso sottovalutato, ma cruciale a lungo termine per una prospettiva storica. Cosa mi puoi dire dei tuoi archivi?
JW: Ci prendiamo costantemente cura del nostro archivio e della documentazione. Il fatto che molti di questi documenti siano digitali non rende le cose più semplici – anzi il contrario! Abbiamo a che fare con un’enorme quantità d’informazioni e documentazione, e cerchiamo di organizzare tutto in modo appropriato, poiché la malattia dei nostri tempi è avere gli stessi materiali duplicati se non di più, molto oltre il necessario. Conserviamo tutto quello che ha un contenuto artistico. Per esempio quando Franz Erhard Walther ha fatto la sua prima personale dieci anni fa, ha mostrato una lunga serie di disegni dal suo diario (il suo racconto illustrato). Dopo la mostra i disegni sono cambiati, ma noi abbiamo un archivio completo di ogni versione. Per me sono estremamente interessanti per comprendere come Walther abbia deciso di cambiare il suo lavoro.
LB: Spesso porti delle presentazioni forti nei tuoi stand alle fiere in giro per il mondo. Progetti con un solo artista o installazioni complesse non sembrano essere una barriera per te. Qual è il ruolo delle fiere per una galleria come la tua?
JW: La fiera è il mezzo espressivo della galleria, mentre lo spazio espositivo è quello dell’artista. Per una mostra in galleria gli artisti ricevono – se necessario – il supporto curatoriale del gallerista. Per le fiere i galleristi ricevono – quando necessario – il supporto curatoriale degli artisti. Questo è un quadro introduttivo per la conversazione.
Io uso le fiere non solo per mostrare l’arte che amo, e non solo come piattaforma per dimostrare il linguaggio visivo e le ambizioni estetiche della galleria, ma anche per sviluppare la mia esperienza e conoscenza delle opere. Mostrando lavori installati per un breve periodo, in uno spazio saturato dalle proposte di altre gallerie, uno può “mettere alla prova” le opere d’arte in un contesto diverso. È sempre molto interessante e stimolante. Nonostante ciò concordo che alcuni tipi di lavori siano quasi impossibili da mostrare in fiera, il che è un peccato.
LB: A proposito di lavori difficili da mostrare in fiera, per il suo venticinquesimo anniversario a novembre Artissima lancerà la nuova sezione Sound, alla quale tu parteciperai. Artissima ha sempre accolto con entusiasmo presentazioni impegnative e un approccio curatoriale. Com’è secondo te la risposta del pubblico? E come affronterai questa nuova sezione?
JW: Questa iniziativa riflette l’approccio sperimentale di Artissima. Per noi sarà un’occasione di mostrare una scultura di Franz Erhard Walther accompagnata da una registrazione sonora delle istruzioni per la performance. È un altro aspetto della pratica dell’artista. Non so come risponderà il pubblico, ma sono molto curioso.
LB: Tu sei nel comitato di selezione di Artissima. È possibile paragonare la selezione delle gallerie per una fiera alla selezione degli artisti per una mostra?
JW: Non paragonerei le due cose. Il comitato di una fiera prende in considerazione criteri come la qualità artistica della galleria, la qualità della sua relazione con il sistema dell’arte (artisti, curatori, collezionisti, altre gallerie), la sua storia e il suo background, la sua localizzazione e il suo ruolo nella scena locale. Artissima è una fiera “del potenziale” e la sfida è considerare le application con artisti emergenti, provenienti da gallerie emergenti. È anche vero che la selezione si limita alle gallerie che fanno domanda.
LB: All’inizio di quest’anno hai mandato un Decalogo come augurio per l’anno nuovo. In questa lista dichiari che si può dirigere una grande galleria con un forte programma internazionale senza necessariamente guidare auto nuove, volare in prima classe e passare le proprie notti in hotel di lusso. Una galleria di successo può tracciare il proprio cammino senza necessariamente seguire il flusso principale.
JW: C’era dell’umorismo nel mio messaggio. Io cerco di lavorare seriamente per i miei artisti senza prendermi troppo sul serio. Penso anche sia pericoloso per il mondo dell’arte essere costantemente associato a quello dei beni di lusso. Le opere d’arte semplicemente non sono oggetti di lusso, anche se a volte sono molto costose. Era una presa di posizione in questo senso.