Marianna Vecellio: La tua esperienza professionale sin dall’inizio è stata contraddistinta da una forte impronta curatoriale: quale strategia hai adottato per la direzione di Artissima? Fino a che punto può spingersi la pratica curatoriale in un contesto fieristico?
Francesco Manacorda: Nel 2009, quando la Fondazione Torino Musei mi ha offerto l’incarico, la fiera era già stata portata da Andrea Bellini a un livello d’innovazione curatoriale simile a quello di un festival, con un programma collaterale di ampia portata e un budget significativo. Da questo punto di vista, Artissima rappresentava quindi un’occasione molto rara di sperimentazione poiché il setting della fiera portava con sé diverse restrizioni, ma il mandato affidatomi dalla Fondazione aveva carta bianca, una situazione pressoché impossibile in qualsiasi istituzione pubblica museale. Per queste ragioni la sfida lanciatami aveva possibilità molto aperte e lasciava spazio a progetti irrealizzati o irrealizzabili altrove. Con questi parametri sono nati i due progetti curatoriali: House of Contamination e Approssimazioni Razionali Semplici, entrambi pensati come investigazioni di modelli museali o prototipi di istituzioni immaginarie. Al di fuori dei progetti curatoriali, un curatore ha anche modo di entrare nel merito strutturale della fiera e in tal senso modificarne l’impianto per portare avanti aspetti di ricerca o di valorizzazione non necessariamente originati nel mercato. Da questa sinergia è nata l’idea di Back to the Future, ad esempio.
MV: Sei stato, infatti, elogiato per aver introdotto questa sezione – ad oggi la più distintiva – all’interno di Artissima, una fiera, da sempre, caratterizzata da una propensione per il nuovo e l’emergente. Qual è stato il processo che ti ha portato alla creazione di questa sezione?
FM: L’idea viene fuori da una mia fissazione ricorrente che ho applicato a vari contesti curatoriali: la nozione di viaggio nel tempo come metafora per la comprensione di processi artistici sia dal punto di vista della creazione che della ricezione. Nel 2010 quando preparavamo la prima edizione di Artissima, in cui ero direttore, il fenomeno della riscoperta degli artisti degli anni ’70 – in particolare – si stava consolidando con una prima ondata di mostre internazionali e varie Biennali. Tale fenomeno era alla base di una pratica di rivalutazione e riscrittura storico-artistica che mirava a portare alla luce aspetti e aree geografiche precedentemente ignorate per la definizione di una storia dell’arte più globale, inclusiva e complessa. La fiera aveva una sezione già riconosciuta dedicata alla scoperta di artisti emergenti di oggi, e l’idea principale per me era per contrasto il portare al centro della fiera la nuova sezione di Back to the Future come macchina del tempo che riportava nel presente una porzione del passato che in eguale misura emergesse nel presente grazie alla rilevanza delle pratiche in essa contenute. Per me uno degli aspetti più importanti era mettere in evidenza la contemporaneità delle posizioni artistiche nonostante la loro datazione storiografica. Gli artisti emergenti e quelli “ri-storicizzati” avevano molti aspetti in comune e dal punto di vista curatoriale quella era proprio la mia idea principale: il fatto che l’impatto e la rilevanza di due opere d’arte possono essere i medesimi, anche se la loro creazione è avvenuta a decenni di distanza.
MV: A tuo parere quali sono le caratteristiche che fanno di Torino e della sua fiera un posto che i curatori amano scoprire e visitare?
FM: L’esperienza della scoperta e la possibilità di trovare nuove prospettive è quello che fa di Artissima un unicum. Gli artisti più giovani possono avere una piazza sicura dove rischiare è ancora possibile e accettabile anche perché la pressione del mercato non è pervasiva e dirompente. Ad Artissima gli artisti si sentono protetti e non sotto osservazione, in una posizione di dialogo e confronto simile ad una mostra collettiva. Questo aspetto di comfort e di autorizzazione al rischio fanno della fiera un vivaio dove le prime conversazioni con i curatori sono più autentiche e trasparenti.
MV: Sono curiosa di sapere se hai continuato a seguire il sistema delle fiere: pensi sia cambiato qualcosa da quando dirigevi Artissima e quali sviluppi possiamo prevedere?
FM: Sempre di più le fiere si sono affermate come luoghi di scambio non solo commerciale ma la parte economica rimane il motore e la componente più determinante di questi eventi. Quello che negli ultimi anni si è andato consolidandosi, è la ricchezza e la complessità della programmazione collaterale. Non mi riferisco in particolare a quelle gestite e finanziate dalle fiere piuttosto quelle costruite dalle istituzioni attorno alle fiere. Ritengo che il fatto che le fiere, a cominciare da Frieze, abbiano puntato su programmi curatoriali con identità forti abbia dato una spinta all’intero ecosistema che gravita intorno all’evento, rendendo il calendario di una fiera un’occasione di attivazione annuale della programmazione artistica di una città. Le fiere sono diventate come una scintilla pronta a detonare un intero arsenale: un’occasione per le istituzioni di incrementare il loro pubblico e dare sfoggio di creatività ed eccellenza nella programmazione. Questa sinergia potrebbe dare luogo a forme di produzione e distribuzione ibride in futuro.
MV: Dopo l’esperienza di Artissima sei stato per tanti anni direttore artistico della Tate Liverpool e ora della Fondazione V-A-C, inoltre a novembre aprirà la Biennale di Taipei che stai co-curando. Sicuramente hai avuto modo di vedere il mondo dell’arte da diversi punti di vista, anche geografici. Quali sono i temi che ti affascinano in questo momento come curatore e quali sono i centri di produzione più interessanti?
FM: In questo momento i temi più interessanti per me sono quelli che riguardano le implicazioni che la rivoluzione digitale sta avendo sul nostro modo di esistere e sulla nostra relazione con il pianeta e gli elementi non umani. Più che post-internet e post-human, io vedo il tema della relazione con gli oggetti, con le protesi digitali che noi usiamo costantemente (anche mentre scrivo ora) come una nuova fenomenologia, una nuova modalità di mediazione tra il pensiero, la nostra vita emotiva e il mondo che ci circonda. Questa mediazione ha aperto canali e interpretazioni inattese e ha cambiato completamente il nostro modo di capire e concepire gli oggetti. Il mondo dell’arte può in questa fase giocare un ruolo chiave nella definizione della relazione tra essere e gli “strumenti utilizzabili” come direbbe Heidegger. Anche la supremazia geografica è mutata di molto grazie ai network digitali. In questo momento i centri di produzione artistici non corrispondono più necessariamente ai centri geopolitici come New York o Londra. La connettività dà la possibilità a realtà marginali di essere presenti e in continuo scambio tra di loro. Una situazione come la Russia dove la comunità artistica ha subito un isolamento parziale accumula un potenziale altissimo in questo nuovo quadro di dialogo. Credo che il futuro ci riservi in particolare sorprese dove le restrizioni politiche, sociali ed economiche daranno una spinta inattesa alla creatività.