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Issue n. 22 | Sarah Cosulich intervistata da Maurizio Cattelan

22 Ottobre 2018 Artissima Stories

Maurizio Cattelan: In una parola, come definiresti la tua direzione di Artissima?

Sarah Cosulich: …issima

MC: Il mondo delle fiere è sempre stato un mistero per me, un’equazione irrisolvibile, anche i lavori più interessanti rischiano di diventare bidimensionali. Forse sono io che ci vado per le ragioni sbagliate?

SC: Forse l’idea di fiera è basata su un equivoco. Il collezionista ci va per comprare, anche se il luogo migliore per apprezzare il lavoro di un artista è in galleria. Il pubblico per guardare, anche se il posto migliore per vedere l’arte è il museo. L’addetto ai lavori per scoprire, anche se fatica a vedere le opere nell’allestimento così fitto e non sempre funzionale. C’è chi la vede come luogo di “networking” professionale e chi come contesto mondano in cui farsi vedere. I politici, a loro volta, cercano i numeri di visitatori e le uscite stampa, anche se poi sono le vendite a determinare il successo di una fiera. Perché la qualità cresce solo con la soddisfazione dei suoi protagonisti – i galleristi – e per attrarne sempre di migliori bisogna far in modo che il loro investimento sia ripagato. Poi a catena tutti gli altri saranno felici. Forse la bidimensionalità di cui parli tu è la dimensione del compromesso. La fiera è un sistema complesso, eterogeneo che interseca obiettivi molto diversi, ma in questo concerto di ambizioni differenti rappresenta comunque il miglior compromesso possibile.

MC: Cosa pensi che manchi al mondo dell’arte?

SC: La semplicità, l’umanità, la leggerezza… che poi sono le cose serie. Oggi mi sembra tutto molto costruito, non c’è più un senso di appartenenza a una scena ma solo a una scenografia.

MC: E a quello delle fiere?

SC: Manca la soluzione a un problema fondamentale: la differenziazione tra le gallerie che fanno principalmente mercato e quelle che fanno anche ricerca, per dare maggiori opportunità agli artisti giovani, o a quelli di valore ma ancora poco conosciuti.

MC: Cosa deve fare una galleria per attirare la tua attenzione?

SC: La fiera è un ingorgo di stimoli visivi. Uno stand interessante deve rendere per un attimo invisibile tutto ciò che sta attorno.

MC: Dove sono oggi i bravi artisti?

SC: Molti sono nascosti dal tempo di sedimentazione che spesso (crudelmente) l’arte necessità per riconoscerne la qualità.

MC: Dove ti senti più a casa, a dirigere Artissima o la Quadriennale?

SC: Quando dirigi una fiera vedi la parte più faticosa ed esigente dei tuoi interlocutori, galleristi, collezionisti, istituzioni. Il direttore di fiera rincorre necessariamente la soddisfazione degli altri. Da curatore, invece, vedi la parte più positiva ed elevata delle persone. Diventi qualcuno a cui gli altri offrono qualcosa invece di chiedere soltanto. Fa una grande differenza a livello umano. E poi sono anche felice di essere tornata a beneficiare dell’energia del contatto con gli artisti che in fiera manca.

MC: Mi hai chiamato, insieme a Marta Papini e Myriam Ben Salah, a curare l’edizione di One Torino 2014: incoscienza o coraggio? Lo rifaresti?

SC: Certo. Avete portato alla fiera e alla città un’attenzione unica, oltre ad aver introdotto un modello di mostra – quello dell’interazione tra l’arte contemporanea e la storia di Torino – che successivamente è stata imitata da diverse istituzioni cittadine. Vista con gli occhi di oggi, sei stato tu il Ronaldo dell’arte per Torino.

MC: Cosa hai pensato quando ti abbiamo detto che il titolo sarebbe stato SHIT AND DIE?

SC: Che questa città aveva bisogno di uno scossone e che sarebbe stato tutto molto divertente. E lo è stato.

MC: La mia opera preferita in mostra era quella senza autore, la forca di Torino. La tua?

SC: Era anche la mia preferita perché era un’operazione curatoriale perfetta oltre ad un fantastico lavoro di Maurizio Cattelan. Come a metà dell’800 nella piazza di Torino in cui avvenivano le esecuzioni, anche nella sala del palazzo in cui visse Cavour avete mantenuto la forca al centro, ridandole una dimensione fisica e tragica fortissima. Se ci pensi conteneva diversi temi che caratterizzano il tuo lavoro di artista: la morte, la sua inafferrabilità, il senso di impotenza, di fuga, di fallimento esistenziale. Magari senza ironia da commedia dell’arte ma in ogni caso uno spettacolo capovolto.

E poi mi sono piaciute le stanze delle donne, dalla liberazione femminista, alla libertà del corpo, all’esempio di Carol Rama, figura fondamentale in una città come Torino in cui le grandi donne sono sempre state in secondo piano rispetto ai tanti “Mollino” della cultura o della storia.

MC: C’è stato un momento in cui avresti voluto fermarci?

SC: Mai. Forse mi sono spaventata un po’ quando, in una fase di budget incerto, mi hai proposto di risparmiare sull’illuminazione lasciando le opere al buio e consegnando ai visitatori una candela all’ingresso.

MC: Torino è cambiata nel frattempo? Cosa ci siamo persi?

SC: Torino negli ultimi anni ha perso un po’ di carattere, energia e imprevedibilità. È una città piena di persone fantastiche, di creatività e cervelli esplosivi che però rimangono nascosti o sottovalutati. Come se ci fosse un’insicurezza di base che porta coloro che a Torino potrebbero fare la differenza a imitare modelli già esistenti invece di investire nelle idee o nella sperimentazione che per tanti anni ha caratterizzato questa città. L’effetto è purtroppo molto provinciale. Però rispetto a prima, ora che vivo Torino privatamente e non più professionalmente, ho la possibilità di godere solo dei suoi lati migliori.

MC: Non ho mai visto organizzare con la stessa efficienza e rapidità una seduta spiritica come quando ero a Torino. Ti è mai successo?

SC: Non è un’esperienza torinese a cui purtroppo ho mai preso parte. Efficienza e rapidità le collego invece all’organizzazione di sedute di gossip da parte della socialità cittadina, una sorta di definizione di sé attraverso la critica agli altri e il pettegolezzo. Ai tempi del sensitivo Gustavo Rol molti personaggi dell’alta società cercavano se stessi nei suoi poteri soprannaturali, attraverso il magico, l’inafferrabile. Magari anche oggi le sedute spiritiche potrebbero rappresentare un’attività più costruttiva.

MC: Se potessi parlare con i morti, chi intervisteresti?

SC: Intervisterei coloro che sono morti senza riuscire a raccontare una verità. Che è morta con loro. Sono affascinata dalle storie impossibili perché non più narrabili, dalle trame che hanno abitato il mondo lasciando energie invisibili.

MC: E cosa ti direbbero?

SC: Di non diventare mai cinica, nonostante tutto.

MC: In cosa credi?

SC: Nell’amore.

MC: Che cos’è Torino per te?

SC: Terra di battaglie, di conquiste e di grandi soddisfazioni. Un’impagabile avventura professionale, umana ed emotiva. Le ultime due continuano ancora. Torino è la mia casa.

MC: Qual è l’ultimo taboo?

SC: L’idealismo.

 

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