OPERE
Adrián Balseca
The Skin of Labour, 2016
The Skin of Labour è stato filmato in una piantagione di gomma nell’Amazzonia ecuadoriana, scenario di uno sfruttamento spietato tanto della natura quanto della stessa mano d’opera, frequentemente mantenuta in condizioni di schiavitù durante decenni. Ad oggi, le politiche di estrazione sono passate dalla gomma al petrolio, dall'estrazione vegetale manuale all'estrazione fossile mediante macchine. Il lavoro sottolinea il divario tra l'Amazzonia idealizzata come natura idilliaca e l’impulso umano a conquistare e sfruttare questo territorio.
Julian Charrière
Ever Since We Crawled Out, 2018
L’opera Ever Since We Crawled Out mette in evidenza la fragilità e rende quasi tangibile la finitezza delle risorse del pianeta. Utilizzando filmati in bianco e nero provenienti da archivi cinematografici, l'opera mostra, in una ripetizione monotona e angosciante, senza soluzione di continuità, il taglio di innumerevoli alberi. Il rumore del legno che si rompe e poi si schianta al suolo è un grido di dolore che invita a riflettere sulla responsabilità condivisa da ognuno di noi nel processo di devastazione della natura
Elena Mazzi
Pirolisi solare, 2017
Pirolisi solare, in particolare, prende spunto dalla ricerca scientifica sulle fonti di energia rinnovabile. Partendo da un’installazione di specchi protagonista di un lavoro precedente (Reflecting Venice, 2012-2014), il lavoro verte sulla grana materica della pellicola che fissa la luce e colpisce un cumulo di paglia, trasformandola in biomassa, risorsa energetica del futuro. Una ricerca scientifica attuale, che cita gli esperimenti di Archimede, al fine di lavorare con fonti energetiche alla portata di tutti.
Joan Jonas
Stream or River Flight or Pattern (detail), 2016-17
Stream or River Flight or Pattern (detail) è parte di un’installazione dallo stesso titolo, composta oltre che da questo da altri due video, da una serie di aquiloni e da grandi disegni di uccelli. Il volo e in particolare gli uccelli sono tra i soggetti principali dell’installazione, il cui materiale video è stato girato nel 2016 tra Venezia, Singapore e il Vietnam.
Seba Calfuqueo
TRAY TRAY KO, 2022
La vera protagonista di TRAY TRAY KO è trayenko, la cascata verso cui l'artista si dirige nella sua azione, un luogo sacro dove si svolgono molti dei riti del popolo Mapuche, tanto per la presenza dell'acqua quanto per la ricchezza di lawen, piante medicinali che crescono sulle sponde delle vasche che si creano spontaneamente sotto al trayenko. Vestita con un lungo mantello azzurro, che si snoda dietro di lei come un secondo fiume, l’artista riafferma la fusione inestricabile tra il suo corpo, e per estensione quello collettivo della comunità Mapuche, e il territorio.
Tamara Henderson
Accent Grave on Ananas, 2013
La figura umana è assente dalla maggior parte dei lavori di Henderson, che ció nonostante offre la possibilità di riconnettersi con il corpo, o meglio, con l’idea stessa di ciò che un corpo è, deve o può essere. Oggetti inanimati o persino un frutto, come in Accent Grave on Ananas, sostituiscono la figura umana e si trasformano in protagonisti di avventure oniriche, surrealiste o riflessive.
Ali Kazma
Safe, 2015
Safe è stato girato nel Global Seed Vault, situato nelle isole Svalbard, tra la Norvegia e il Polo Nord, il più grande tra oltre 1.000 depositi che, in varie parti del mondo, conservano semi di piante da usare in caso di catastrofe. L’opera evidenzia l'importanza di preservare la biodiversità agricola e la necessità sempre più urgente di salvare piante (e acqua pulita). Ne emerge un ritratto desolato della società contemporanea, condannata a prendere delle misure per prevenire gli effetti di catastrofi che lei stessa si ostina a creare.
Shimabuku
Sculptures for Octopuses: Exploring for Their Favorite Colors - Aquarium in Kobe, 2019
Sculptures for Octopuses è uno di vari lavori in cui Shimabuku volge il suo sguardo al mare e alle creature che lo abitano, in questo caso creando una serie di sculture per polipi. Le sculture diventano uno strumento per cercare di capire come pensa un polipo, quali sculture gli piacciono di più, quali meno, quali sono i suoi colori preferiti. Come scrive l’artista, “sul vasto fondale dell'oceano, può un piccolo pezzo di vetro connettere un uomo e un polipo?"
Uriel Orlow
What Plants Were Called Before They Had a Name, 2015-2018
L’opera sonora What Plants Were Called Before They Had a Name è una sorta di erbario orale. Da speakers differenti vengono pronunciati nomi di piante in lingue indigene sudafricane come Khoekhoe, Norhern Sotho, Sesotho, siSwati, Setswana, Xithsonga, Xhosa e isiZulu. L’opera è nata a seguito della visita dell’artista al Kirstenbosch Botanical Garden di Città del Capo, nel quale la catalogazione delle piante usa esclusivamente nomi latini e traduzioni in inglese, ignorando le denominazioni e le conoscenze tradizionali delle comunità indigene. What Plants Were Called Before They Had a Name riconosce, restituisce e celebra questa conoscenza repressa, permettendo alle piante di "cantare" in onore del loro passato e di riportarlo in vita, dando voce a un capitolo dimenticato della storia.